La definizione di pane è riportata nell’articolo 14 della Legge 580/1967, il quale afferma che “[…] è denominato “pane” il prodotto ottenuto dalla cottura totale o parziale di una pasta convenientemente lievitata, preparata con sfarinati di grano, acqua e lievito, con o senza aggiunta di sale comune (cloruro di sodio)”.Sono passati 54 anni da allora; si è discusso sull’interpretazione della parola “convenientemente lievitata”, si è modificata la normativa con il D.M. 131/18, si sono introdotti nuovi claim, modificata la legge sull’etichettatura, ma la presenza del cloruro di sodio nell’impasto è una costante e a questo punto sorge il dubbio che effettivamente possa avere un’implicazione tecnologica fondamentale.
L’IMPLICAZIONE TECNOLOGICA DEL CLORURO DI SODIO NEL PROCESSO PRODUTTIVO
Anche se il sopraccitato articolo fa espressamente riferimento al pane, questo non esclude la sua presenza in altri prodotti del comparto della panificazione, tra quali la pizza. In linea di massima, la quantità di cloruro di sodio impiegata nel pane, intesa come media nazionale, è compresa tra 1,8-2,0% sulla farina utilizzata; valore che può raggiungere 2,2-2,1% in presenza di farina di segale, farine integrale di grano tenero e/o pseudo cereali, così come ridursi all’1,0% se abbinato a lavorazioni particolari. In ogni caso, su tutta la produzione panaria nazionale la quantità di sale non supera, in media, quasi mai il 2,0%. La stessa cosa non si può dire per la dose usata dai pizzaioli nella preparazione dell’impasto, il cui quantitativo mediamente è circa il 3,0% sulla farina utilizzata.
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