A introdurre il tema non occorrerebbe neppure ricorrere alle seppure precise statistiche secondo cui, dopo i picchi registrati durante le fasi pandemiche, nel 2022 il 9,8% degli italiani sceglie il food delivery (Rapporto «Il valore economico e sociale della distribuzione Horeca nel post Covid-19» realizzato dal Censis in collaborazione con Italgrob, marzo 2022). La consegna a domicilio è un’attività economica a se stante, ma anche una significativa modalità di smercio di prodotti per taluni operatori del sistema alimentare. Della figura del rider si sono occupati oramai diversi tribunali italiani chiamati a definire, nei casi specifici, la natura del rapporto di lavoro instaurato tra gli operatori e le organizzazioni che raccolgono digitalmente gli ordini e sovente incassano e vendono direttamente gli alimenti. Rimando, per gli aspetti giuslavoristici, a diversi studi sulla recente giurisprudenza di settore quale quello di Matelda Lo Fiego[1].
Igiene sanitaria e tutela del consumatore
Attenti agli aspetti di legislazione alimentare non sfugge che coesistano la consegna a domicilio, ad esempio, della spesa (fatta online presso una struttura fisica aperta al pubblico o di persona nel locale commerciale o attraverso una mediazione online) e la più recente consegna tramite rider, generalmente di alimenti pronti prevalentemente per l’immediato consumo, ma non soltanto; si tratta di fenomeni che nelle soventi diversità per tipo di organizzazione, distanza, volumi del consegnato ecc. sono tutti sottoposti alle norme di tutela igienico-sanitaria e di tutela del consumatore. Anche a prescindere dal tema che più di tutti ha coinvolto le autorità giudiziarie, come detto quello della natura del rapporto di lavoro tra impresa e rider, dei diritti e doveri conseguenti, e anche si sostenesse la tesi che afferma che quella del rider sia un’attività autonoma, dal punto di vista del consumatore l’igiene alimentare e la corretta informazione debbono essere garantiti a prescindere che a consegnare l’alimento sia uno studente che arrotonda le proprie entrate economiche o l’imprenditore che si rechi al domicilio dei propri clienti migliori.
L’incombenza degli obblighi generali, quale l’Haccp, prescinde, a mio modo da vedere, dalla natura legale di chi consegni l’alimento nel quadro di un’attività professionale che, al minimo, con la logistica integra quella di vendita effettuata dal produttore. Se anche la distribuzione senza fini di lucro è sottoposta a un quadro di obblighi, seppure molto ridotto rispetto a quello generale, la “piccolezza” o la natura de minimis della consegna di una pizza o di un piatto freddo, non mi pare possa godere di guarentigie che escludano l’assoggettabilità alla legislazione di settore.
La recente Comunicazione della Commissione (relativa all’attuazione dei sistemi di gestione per la sicurezza alimentare riguardanti le corrette prassi igieniche e le procedure basate sui principi del sistema Haccp, compresa l’agevolazione/la flessibilità in materia di attuazione in determinate imprese alimentari (2022/C 355/01)) esplicitamente prevede che “la dirigenza si accerta che il personale che partecipa ai processi pertinenti dimostri di avere competenze sufficienti e sia a conoscenza dei pericoli identificati (se del caso), dei punti critici nella produzione, nel magazzinaggio e nel processo di trasporto e/o di distribuzione”. Mutatis mutandis a prescindere dall’organizzazione aziendale, chi operi la consegna deve possedere e dimostrare di possedere competenze specifiche alla propria attività. Le condizioni di trasporto, le temperature, la pulizia dei contenitori di trasporto, i tempi del trasporto, l’igiene personale, la conformità dei materiali a contatto, l’abbigliamento, il punto di rifornimento rispetto al laboratorio di manipolazione dell’alimento, l’identificazione dei prodotti attraverso la denominazione di vendita, l’identificazione del rider come operatore alimentare ecc. senza dire della tracciabilità, (o del “piatto testimone”, obbligatorio in Francia per alcune forme di ristorazione) sono alcuni temi di semplice evidenza. Il tutto, insomma, deve essere inquadrato in un sistema di autocontrollo.
Ammesso e non concesso che talune attività di trasporto, quindi di ritiro prodotto, trasporto e consegna al consumatore siano caratterizzate da una limitatezza di punti critici (CCP) rispetto ad altre attività di produzione e trasformazione alimentare, la Commissione, nella Comunicazione citata, insiste sull’applicabilità di criteri di flessibilità sia in tema di buone prassi di lavorazione (GHP), sia delle procedure basate sull’Haccp. Quindi, almeno a livello di interpretazione della normativa unionale esistente, l’indirizzo fornito dalla Commissione è che sia possibile avere attività con rischi ridotti da assoggettarsi a sistemi che, adeguati alla natura dell’attività, siano di fatto semplificati.
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Avvocato esperto in diritto dell’alimentazione
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